I miei fallimenti: Aquathlon (2007)

PROLOGO

Gli sport mi sono sempre piaciuti. Tutti.

Sci, nuoto. Bici, corsa, tennis. Li ho provati tutti “voracemente”, contando i secondi sul cronometro e le sbucciature sul ginocchio in uguale maniera. Ecco perché – quando nel 2007 scoprii che nel mare di Napoli avrebbero tenuto una tappa dei campionati di aquathlon – mi dissi “mi ci tuffo”!

L’acquathlon è il cugino spartano del triathlon e prevede “soltanto” il nuoto e la corsa ma con distanze anche impegnative: non proprio una passeggiata insomma.

Nel 2007 mi allenai parecchio. Con la strada avevo una buona confidenza ma l’acqua? Scelsi una sessione intensiva di allenamenti in piscina, con un crescendo che mi portò a coprire le stesse distanze della gara. Indizio: qui c’era un primo errore, ma lo avrei scoperto solo dopo.

LA CRISI

Immaginatelo addosso a me. O forse no, meglio di no.

Eppure il 22 aprile 2007 era questo che indossavo mentre mi preparavo a tuffarmi nel mare di Mergellina. Era una bellissima giornata. Soleggiata ma non calda. Con un po’ di vento ma leggero. Con il mare piatto, soprattutto (eppure questo lo avrei dimenticato subito, una volta in acqua). Pronti, partenza, via: parte questa prova del campionato di acquathlon. Dopo i primi 2,5 km di corsa, lascio l’asfalto per buttarmi in acqua. Fino alla prima boa tutto tranquillo. Poi il percorso prevede di allontanarsi dalla costa: viriamo verso il “vuoto” del mare aperto.

Ed è lì che arriva la crisi. Il mare profondo perde colore e diventa scuro, nero. L’adrenalina cede il posto alle paure, alle paranoie. Le piccole increspature nel mare diventano nella mia mente delle onde che potrebbero tirarmi giù. In una parola: panico. É allora che chiedo all’assistente di gara che ci segue in barca di aiutarmi. Lui si avvicina subito con la sua imbarcazione e mi chiede “Ma sei stanco? Non riesci ad andare avanti?” Io rispondo: “No no, ce la faccio. Ma mi ora devi prendere“.

Fine della gara, vengo tirato su in barca. Il mio imbarazzo viene curato subito dalle pacche sulla spalla del tizio (e anni dopo da un’intervista di Federica Pellegrini in cui confessa che perfino lei ha problemi a nuotare in mare aperto). Per la cronaca, il rientro a riva ho dovuto comunque farlo a nuoto siccome la barca doveva continuare a seguire la gara. Il punto non era il mare. Il problema in quel momento era la mia percezione del mare.

COSA HO IMPARATO

Si fa presto a dire blu.

Visto dalla spiaggia, il mare ha il suo colore #nofilter che ci piace tanto: un celeste luminoso, chiaro, intenso. Tuttavia è nuotando lontano dalla riva che succede qualcosa. L’acqua diventa più profonda e così il colore inizia a cambiare: azzurro, ceruleo, cobalto. Ancora qualche bracciata e il mare diventa “buio”, blu notte. Con le nuove sfumature di colore, giunge anche la paura di avere troppo lontana la terraferma. Ammiriamo nuove profondità, le stesse che però ci inquietano un po’.

Ecco io tutte queste cose non le avevo messe in conto nella gara del 2007 quando – superata la prima boa – iniziavo ad allontanarmi dalla costa per dirigermi in mare aperto.

Quel momento di crisi di tanti anni fa mi ha insegnato a guardare più a fondo dentro me stesso. Ho imparato ad accettare che la paura si mescoli con la gioia. Timori e ansie possono far parte della vita e riconosco ora che le luci dei successi possono accompagnarsi a momenti più oscuri.

Ora lo so, grazie anche a quella competizione finita così male. E ora ogni volta che giro una “boa” nella vita o nel lavoro mi chiedo: scappo subito a riva o mi ci immergo in questo blu-dipinto-di-blu?

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2021-06-04T17:35:49+02:00 Maggio 21st, 2021|Categories: Match|